Emme Rossa

GUERRA CIVILE!

Home Page                                                                                                                          Mappa del sito

SOMMARIO

* I sette fratelli Cervi - I sette fratelli Govoni

* L'adesione alla RSI

* La Repubblica di Montefiorino

 

I SETTE FRATELLI CERVI - I SETTE FRATELLI GOVONI

 Nei primissimi tempi della guerra civile la Provincia di Modena rimase, par alcuni mesi, fuori dall'occhio del ciclone, mentre episodi d’intolleranza, agguati, uccisioni e vendette si andavano via via intensificando, in tutto il Nord Italia.

Nelle Provincie vicine alla nostra, Reggio Emilia, Bologna e Ferrara accaddero sin dalla caduta del regime fascista e negli ultimi mesi del 1943, gravi episodi.

In seguito, molte azioni della guerriglia partigiana s’intersecarono con quelle della nostra Provincia e ne vedremo gli sviluppi nella parte dedicata alla cronaca.

Due fatti, avvenuti nelle Provincie limitrofe, per la loro tragicità e per la loro rilevanza, sono stati talmente rappresentativi da assurgere a simbolo dell’aberrazione della lotta fratricida in quanto si pongono, l'uno all'inizio della drammatica spirale d’odio e di vendette, il secondo a guerra ultimata, nell'allucinante periodo nel quale i "vincitori" si diedero alla "mattanza" dei perdenti.

Si tratta dei sette fratelli Cervi uccisi dai fascisti a Campegine di Reggio Emilia il 28 Dicembre 1943 e dei sette fratelli Govoni, uccisi dai partigiani a Pieve di Cento, l'11 Maggio 1945.

Questi due episodi, analoghi per la loro spietatezza e ferocia, per la stessa collocazione ambientale in cui avvennero e per l'identica fine di due gruppi familiari così numerosi, avrebbero dovuto avere per la memoria storica degli italiani, la stessa identica posizione e la medesima commemorazione. Nell'arco di quasi cinquanta anni tutto questo non è avvenuto: i primi sette fratelli sono assurti ad "emblemi" della resistenza, monumenti eretti alla loro memoria, libri ed articoli pubblicati in occasione delle celebrazioni annuali, la loro casa trasformata in museo storico, ecc.; i secondi sono stati sistematicamente ignorati come se loro vite non fossero mai esistite, totalmente cancellati dai resocontisti di regime: "Vae victis".

Esaminiamo, dunque, questi due tragici fatti, attraverso le ricerche storiografiche che sono state condotte nel passato; tante per i primi, una sola per i secondi.(1)

 

I SETTE FRATELLI CERVI

La famiglia Cervi

 Sull'uccisione dei fratelli Cervi esiste una vastissima letteratura, sia di tipo celebrazionistico sia maggiormente introspettiva e a quelle rimandiamo il lettore che volesse ulteriormente documentarsi.

Nella stessa letteratura resistenziale esistono interpretazioni estremamente contrastanti che andremo ad esaminare assieme alle valutazioni di parte fascista che, a nostro parere, assumono un valore d’estrema importanza, per le precise e circostanziate accuse alla componente comunista, che non sono mai state confutate, sul com’è stato gestito, a quei tempi, l'affare Cervi, a prescindere dalla reale responsabilità materiale di parte fascista nella fucilazione dei sette fratelli.

Torna all’inizio

Da come siamo stati abituati, dalla fine della guerra ad oggi, a forme di celebrazionismo incensatorie di tutti i fatti della resistenza, compreso quello dei fratelli Cervi, è stato per noi, quanto meno inusuale e anticonformista quello che abbiamo trovato in alcuni testi resistenziali circa l'interpretazione che è data sul comportamento, nell'ambito dell'appena iniziata lotta partigiana, dei sette fratelli, che in realtà non si distacca, più di tanto, dalle interpretazioni di parte fascista che vedremo a seguire.

Secondo una tesi, che appare ben documentata, sembrerebbe che il partito comunista reggiano non condividesse per niente il metodo della guerriglia portata avanti da questi fratelli.

Ad una precisa domanda in merito, posta da uno storiografo della resistenza ad uno dei maggiori esponenti del PCI delle nostre zone, così è risposto:

 "E' importante un esame di quella formazione, perché era una formazione tipica come altre non potevano essere. La formazione, promossa e portata in montagna dai fratelli Cervi, rifuggiva da ogni disciplina e da ogni controllo del Comando generale; in altre parole era una formazione di carattere anarchico. Aldo Cervi mi dichiarava che si riteneva anarchico, rifiutava ogni organizzazione politica, pur sostenendo che il domani del paese era rappresentato dal p.c. il quale solo aveva idee chiare, un programma preciso ecc.... ma mai avrebbe potuto adattarsi a qualsiasi disciplina propria della dottrina comunista."(2)

 Un garibaldino russo, che faceva parte delle formazioni partigiane della zona e che scrisse un libro di memorie sulle sue avventure di partigiano(3), sostiene, al contrario, che accordo ci fu tra i Cervi ed il PC reggiano, ma la tesi è ugualmente contestata dal "commissario" partigiano sopra citato:

"In ogni modo la testimonianza di Tarassov tende a sottolineare uno stretto collegamento fra il gruppo di Aldo Cervi e la federazione comunista di Reggio, tutt'altro che dimostrato dalle fonti."(4)

 L'ortodossia del Partito Comunista sembra aver fatto prevalere la tesi dell'accordo tra i partigiani Cervi, la federazione del p.c. ed il CLN.

Vi è dunque, all'interno della componente comunista, una valutazione differenziata dai cliché celebrazionistici, sull'operato dei Cervi; che poi, a distanza di tempo si sia creato un coro unanime per la creazione e la celebrazione del mito sul martirologio di quella famiglia, appare quanto meno evidente e comprensibile.

E' opportuno, però, prendere anche in considerazione le tesi di parte fascista la quale gettano una serie di ombre sull'operato del PCI reggiano e che non sono mai state seriamente controbattute.

I fratelli Cervi, già nel periodo di fulgore del fascismo, erano conosciuti per l'opinione politica di alcuni di loro, come dei convinti anarchici, ma in realtà non diedero mai delle serie preoccupazioni alle autorità costituite.(5)

Torna all’inizio

Subito dopo l'8 Settembre 1943, si organizzarono, trasformando la loro casa di Campegine in base partigiana, organizzando colpi di mano ed ospitando prigionieri di guerra fuggitivi.

Questa loro attività andò avanti per un certo tempo, ma poi furono scoperti dalla polizia fascista anche come mandanti od autori di uccisioni di fascisti.(6)

I Cervi furono catturati il 25 Novembre 1943, ma va’ sottolineato un fatto assai importante. Due giorni prima, in una Caserma fascista, vi fu una riunione alla quale partecipò anche il Comandante della Milizia, Capitano Riccardo Cocconi, professore di lettere, segretario del fascio repubblicano di Campegine, località nella quale possedeva parecchi terreni e già a quel momento doppiogiochista; in quell'incontro vennero esaminate nei particolari, carte topografiche militari della zona di Campegine. Due giorni dopo vi fu l'attacco fascista, i Cervi si difesero con accanimento, ma furono costretti ad arrendersi.(7)

Dopo l'arresto nessuno parlò di fucilazione, e solamente due dei sette fratelli si dichiararono apertamente comunisti. E qui affiora il grosso interrogativo, riportato nella storiografia di parte fascista:

 "i comunisti non fecero nulla per salvare i sette Cervi, ma, anzi intensificarono l'azione dei Gap, ben sapendo che la reazione fascista avrebbe finito per abbattersi su alcuni o su tutti i componenti della famiglia Cervi detenuti nelle carceri di Reggio. L'unico che può fornire una risposta, anche se è prevedibile che non parlerà mai, è l'ex capitano della Milizia ed ex segretario del fascio di Campegine Riccardo Cocconi, oggi residente a Pavia dove lavora alle dipendenze della Olivetti. (anni "60, data della stesura della nota. N.d.r.)

Il Cocconi uno dei tre ufficiali che partecipò alla riunione nel corso della quale vennero verosimilmente messi a punto i particolari dell'azione che doveva portare alla cattura dei Cervi, gettò la maschera e rivelò le sue vere inclinazioni politiche pochi giorni dopo la riunione sopracitata. Dopo aver partecipato, in divisa della milizia, al prelevamento del Segretario del Fascio di un paese del modenese si diede alla macchia nella zona di Villa Minozzo e costituì il nucleo dal quale doveva poi sorgere la prima brigata "Garibaldi" operante nel reggiano. In seguito si venne a sapere che il Cocconi era già da tempo aderente al PCI".(8)

 Questo ex capitano della milizia, "infiltrato" sino al momento in cui venne scoperto, diventò poi, con il nominativo di "Miro", vicecomandante delle brigate comuniste e al termine della guerra fu anche viceprefetto di Reggio Emilia e potentissimo esponente del PCI.

Gli altri testimoni fascisti di quella riunione vennero fucilati nei giorni della liberazione. Vi furono dunque queste grosse responsabilità; vennero sacrificati i fratelli Cervi all'olocausto, per un tornaconto del p.c. ? E' difficile pensare di avere oggi una rivisitazione obiettiva di quei fatti che si allontani dagli stereotipi creati con l'appoggio di tutte le forze politiche.

Fu allora un’irrazionale ed inutile strage; i fratelli Cervi vennero uccisi, dopo una serie di attentati che culminarono con l'uccisione del Segretario fascista di Bagnolo in Piano; i più duri e facinorosi tra i fascisti volevano a tutti i costi la rappresaglia, malgrado che il Capo della Provincia di Reggio Emilia, Enzo Savorgnan(9), si rifiutasse di dare l'autorizzazione. Ma un tribunale speciale, composto tra i più estremisti del fascismo reggiano, decretò la morte che venne rapidamente eseguita; assieme ai sette fratelli, cadde anche un disertore fascista:

 "I setti Cervi e il Camurri furono fucilati al poligono di tiro. Il plotone di esecuzione era composto da venti militi della GNR. I condannati si comportarono con coraggio."(10)

Torna all’inizio

 

I SETTE FRATELLI GOVONI

La fossa comune dove sono stati sepolti i sette fratelli Govoni ed altri dieci fascisti Govoni Augusto di anni 27      Govoni Dino 41 anni    Govoni Emo 32 anni
Govoni Giuseppe 30 anni     Govoni Ida 20 anni       Govoni Marino 36 anni  Govoni Primo 22 anni

                  

 Le pagine dei libri di storia della resistenza sono piene dei fatti relativi ai fratelli Cervi; ogni anno, in occasione delle date storiche i giornali pubblicano articoli su articoli che fanno rivivere quel tragico avvenimento, rinfrescando la memoria degli italiani che, in genere, sono "facili a dimenticare", e per riproporre, con la solita monotona formula le aberranti "atrocità nazifasciste".

La casa dei fratelli Cervi, in quel di Campegine, trasformata in "museo della resistenza", il pellegrinaggio continuo di cittadini e di scolaresche colà convogliate dalle organizzazioni di partito predisposte, l'onore della visita di capi di stato, innumerevoli volumi pubblicati sulla vicenda, sono testimonianze che, come ha scritto l'ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini, dimostrano come:

"nella storia dei Cervi si possa diventare antifascisti partendo dai valori più elementari ed essenziali: l'amore per l'uomo, il culto della famiglia, la passione per il lavoro dei campi." 

Torna all’inizio

In questa terra padana, altri sette fratelli contadini questi valori elementari li conoscevano nello stesso identico modo, anche loro avevano il culto della famiglia, la grande passione per il lavoro e sapevano amare gli uomini ma, purtroppo, erano schierati dalla parte opposta, erano dei "fascisti", di conseguenza i pennivendoli del regime non hanno mai scritto, né mai scriveranno alcuna riga a ricordo di sette contadini che, stranamente secondo certe teorie addomesticate, vestivano in "camicia nera".

I Govoni vivevano a non molti chilometri di distanza da Campegine e precisamente a Pieve di Cento, in Provincia di Bologna ai confini con le Provincie di Modena e Ferrara, paese immerso nella medesima grande campagna; sono stati barbaramente uccisi a guerra ultimata solamente perché due di loro avevano aderito alla RSI.

Di conseguenza, in questo paese, non sono stati eretti monumenti o musei, né per loro sono stati scritti ponderosi libri apologetici, qui, probabilmente la terra che lavoravano aveva un "humus" diverso dal reggiano, poiché né folle di cittadini, né scolaresche "intruppate", né Capi di Stato vengono convogliati a visitare questi luoghi di martirio, nessun segnale turistico indica "casa Govoni" e nemmeno sulla casa di campagna è stata posta una scritta che dice "su questa terra, in questa casa i sette fratelli Govoni vissero il senso della loro vita, su quest'aia vennero presi e portati a morte".

Forse lo stesso papa' Govoni era tanto diverso nella sua dimensione di padre mutilato delle sue sette creature, da vedersi rifiutato, in morte, un necrologio in commemorazione del secondo anniversario della sua scomparsa.(11)

Evidentemente tanto scomodo è questo ricordo alla Repubblica Italiana, nata dalla "resistenza".

E' forse stato meno coraggioso dell'altro disgraziato padre, nel portare avanti la sua esistenza con coraggio e con tenacia sino alla fine dei suoi giorni, senza riconoscimenti, o medaglie al valore, chiuso nel suo grande dolore?

11 Maggio 1945. La guerra è da poco finita, in una casa colonica tra Pieve di Cento ed Argelato vengono uccise, dopo orribili sevizie, 17 persone, tra queste, i sette fratelli Govoni. Come detto in questa località viveva una famiglia di contadini composta dal padre, Cesare Govoni, dalla madre, Caterina Gamberini e dai loro otto figli: il primogenito. Dino aveva 41 anni, sposato, due figli, artigiano falegname, era iscritto al Partito Fascista Repubblicano; il secondo, Marino, aveva 33 anni e anche lui aveva aderito alla RSI, nessuna accusa era mai stata portata nei loro confronti, terzogenita, Maria, che fu l'unica a salvarsi poiché, sposata si era trasferita ad Argelato con il marito e i partigiani non riuscirono a trovarla; seguivano: Emo, trentadue anni, viveva con i genitori e non si interessava di politica, così come Giuseppe, 30 anni sposato, anche lui faceva il contadino ed aveva un figlio di tre mesi, poi vi erano: Augusto, di 27 anni e Primo di 22 anni, celibi, lavoravano la terra con i genitori ed anche loro non si erano mai interessati di politica; l'ultimogenita si chiamava Ida, venti anni, appena sposata e madre di un bambino di due mesi, anche lei come il marito mai avevano svolto politica attiva.(12)

Torna all’inizio

I dati e le circostanze riportate, scaturirono dalla sentenza con la quale l'8 Febbraio 1953, la Corte d'Assise di Bologna, condannò gli autori di quei massacri.

La strage dell' 11 Maggio 1945, venne preceduta da altri orrendi delitti individuali e di massa compiuti da una "banda" di partigiani che scorrazzava nella zona, con piena licenza di uccidere i fascisti.

Difatti, qualche giorno prima, molte altre persone vennero prelevate dalle loro case e portate in un isolato casolare di Voltareno di Argelato. Uno dei protagonisti, che era sfuggito alla cattura ed al massacro, vide parecchie cose e dopo un periodo di omertà forzata, parlò, provocando in quel modo l'intervento delle autorità.(13)

La sera del 9 Maggio vennero eliminate, dopo innumerevoli sevizie, dodici persone; si trattava della Professoressa Laura Emiliani di S. Pietro in Casale, dell'ex Podestà di San Pietro, Sisto Costa con la moglie Adelaide ed il figlio Vincenzo e dei cittadini di Pieve di Cento: Enrico Cavallini, Giuseppe Alberghetti, Dino Bonazzi, Guido Tartari, Ferdinando Melloni, Otello Moroni, Vanes Maccaferri e Augusto Zoccarato.

Il giorno seguente iniziò l'operazione di prelievo dei fratelli Govoni; il luogo del carcere e poi del supplizio fu una casa colonica di un contadino che, avendo avuto un figlio ucciso dai fascisti, doveva tenere la bocca chiusa per quello che sarebbe successo. Il primo ad essere prelevato fu Marino:

 "In realtà i partigiani contavano di arrestare, quella sera, tutti i fratelli Govoni. In casa, però trovarono solo Marino, il terzogenito. Gli altri, fatta eccezione per le due figlie che abitavano ormai altrove, erano tutti in giro per il paese. I più giovani si erano recati a ballare. I Govoni, infatti, non sospettavano lontanamente di essere già tutti in "lista". Nei giorni successivi all'arrivo delle truppe angloamericane erano stati convocati dal comando partigiano, interrogati e quindi rilasciati perchè a carico loro, non era emersa alcuna accusa. Il mancato prelevamento degli altri fratelli indusse i partigiani ad accelerare i tempi dell'azione nel timore di vedersi sfuggire le prede dalle mani.(14)

Riuscirono così, nella notte, a raccogliere tutti gli altri fratelli compresa la giovane Ida, che implorava di non staccarla dalla bambina che doveva allattare, anzi presero anche il marito che poi venne scaricato dal camion che li trasportava, cammin facendo.

Vennero portati tutti in un grande camerone adibito a magazzino e subito:

 "su di loro cominciò a sfogarsi la ferocia dei partigiani".(15)

  Torna all’inizio

Alla mattina successiva, altre 10 persone di San Giorgio in Piano furono condotte in quella prigione per condividere la sorte dei fratelli Govoni; erano andati tranquilli, poiché i partigiani avevano detto loro che si trattava di "comunicazioni" che li riguardavano, presso la caserma dei carabinieri, erano: Alberto Bonora, Cesarino Bonora e Ivo Bonora di 19 anni, nonno, figlio e nipote; Guido Pancaldi, Alberto Bonvicini, Giovanni Caliceti, Vinicio Testoni, Ugo Bonora, Guido Mattioli e Giacomo Malaguti. Tutte persone rispettate in paese per la loro onestà, ma con un difetto, erano anticomunisti. L'ultimo, anzi, aveva combattuto contro i tedeschi con l'esercito del Sud, ed era appena rientrato al paese.

Erano le ultime ore per i diciassette rinchiusi nel casolare di campagna e i registi di quel drammatico dramma di sangue si incaricarono di far confluire sul posto un buon gruppo di "comparse", della loro stessa specie, per compiere collettivamente un rituale sanguinario degno delle più orripilanti celebrazioni sataniche.

 "Si era sparsa, frattanto, tra i partigiani della 2° brigata Paolo e delle altre formazioni, la voce che stava per incominciare un "bella festa" nel podere di Emilio Grazia. Dapprima alla spicciolata, poi sempre più numerosi, i comunisti cominciarono a giungere alla casa colonica dove erano già prigionieri i sette Govoni. Non è possibile descrivere l'orrendo calvario degli sventurati fratelli. Tutti volevano vederli e, quel che è peggio, tutti volevano picchiarli: per ore e ore nello stanzone in cui i sette erano stati rinchiusi si svolse una bestiale sarabanda tra urla inumane, grida, imprecazioni. L'indagine condotta dalla Magistratura ha potuto aprire solo uno spiraglio sulla spaventosa verità di quelle ore. La ferrea legge dell'omertà instaurata dai comunisti nelle loro bande ha impedito che si potessero conoscere i nomi di quasi tutti coloro, e che furono decine, che quel pomeriggio seviziarono i sette fratelli Govoni."(16)

 Vi fu poi, una specie di interrogatorio, a base di maltrattamenti e sevizie, così dice la sentenza del vero tribunale. Nessuna delle vittime morì per colpi di arma da fuoco e quando molti anni dopo furono scoperti i corpi si accertò che quasi tutte le ossa degli uccisi presentavano fratture e incrinature. Le urla strazianti degli sventurati risuonarono per molte ore. Alle ore 23 del 11 Maggio tutto era finito. Poi ci fu, tra gli assassini, la spartizione degli oggetti d'oro delle vittime, mentre gli oggetti di scarso o di nessun valore furono buttati in un pozzo dove vennero rinvenuti mentre si svolgeva l'indagine istruttoria. I corpi delle diciassette vittime furono sepolti subito dopo in una fossa anticarro, non molto distante dalla casa colonica.(17)

Negli anni successivi silenzio assoluto. I genitori dei Govoni fecero una ricerca lunghissima e dolorosissima senza approdare a nulla. Nessuno parlava, tutti, in quelle zone vivevano nel terrore. La vecchia madre venne anche picchiata. Poi lentamente, si mosse la macchina della giustizia. Ma molti tra gli indiziati riuscirono ad espatriare con l'aiuto dell'organizzazione predisposta dal Partito Comunista, gli altri, pur essendo stati riconosciuti responsabili di quegli eccidi, di fronte alla giustizia che applicava le norme della amnistia Togliatti (18), furono sottoposti a giudizio esclusivamente per l'uccisione del militare che aveva combattuto con l'esercito del Sud e condannati; ma in seguito , il ricorso in Cassazione, le amnistie e i condoni giudiziari, rimisero in breve tempo, tutti i responsabili, in libertà. Ai due genitori, lo Stato Italiano, dopo molte perplessità, concesse una pensione di settemila lire:

 "mille lire per ogni figlio assassinato."(19)

Torna all’inizio

 NOTE

 1    Le vicende dei fratelli Cervi vengono raccontate in numerosissime pubblicazioni della storiografia resistenziale ed alcune sono citate nella bibliografia: per i fratelli Covoni abbiamo trovato una ricostruzione solamente nella ponderosa opera di Giorgio Pisanò: "Storia della Guerra civile in Italia.

2    cfr. O. Poppi, a cura di L. Casali: "Il commissario" pag. 11.

3    cfr. A. Taravo: "Sui monti d'Italia-Memorie di un garibaldino russo".

4    cfr. O. Poppi, op. cit. pag. 15

5    cfr. G. Pisanò, op. cit. pag. 444 Vol. 1°

6    ibidem

7    ibidem

8    ibidem. Nella storiografia resistenziale, cfr. E. Gorrieri in: "La Repubblica di Montefiorino", pag. 107 n. 15, si sostiene che il Cocconi fosse rifugiato a Monteombraro di Zocca nella villa dell'Ing. Zozimo Marinelli, assieme ad altri partigiani e disertori fascisti, e dove si ebbe il primo grave fatto di sangue del modenese con l'uccisione del Segretario del PFR di Zocca, Vincenzo Minelli. cfr. nella cronaca, ivi, alla data del 27 Novembre 1943.

9    Il Capo della Provincia di Reggio Emilia, Enzo Savorgnan, venne fucilato nei giorni della "liberazione" a Varese; la moglie dichiarò che quando il marito apprese della notizia della fucilazione dei fratelli Cervi, si prese la testa tra le mani esclamando, "questo errore lo pagheremo caro".

10   cfr. G. Pisanò op. cit.

11   Il giornale che rifiutò il necrologio per Papà Govoni fu : "Il Resto del Carlino" nel mese di Aprile del 1980.

12   cfr. G. Pisanò op. cit. da pag. 1733 a pag. 1740.

13   ibidem

14   ibidem

15   ibidem

16   ibidem

17   ibidem

18   ivi, nel capitolo riguardante l'epurazione.

19   cfr. G. Pisanò, op. cit.

 Torna all’inizio

L’adesione alla RSI

L’ADESIONE ALLA RSI

 

  Il primo periodo dei seicento giorni della Repubblica Sociale Italiana, si presenta, per Modena e la sua Provincia, abbastanza tranquillo; moltissimi giovani, volontari e di leva si schierano con la nuova formula del fascismo Repubblicano, sia nel modenese sia in tutto il resto del territorio italiano non occupato dagli angloamericani e contrariamente a quanto, sino ad oggi, ha fatto credere la pubblicistica antifascista.

  Moltissimi nomi diventati noti nel dopoguerra, quali l'ex Sindaco di Modena poi deputato comunista, Rubens Triva,(1) l'ex Sindaco di Bologna ed ex Presidente della Regione Emilia Romagna, Guido Fanti,(2) oltre a uomini divenuti famosi nel mondo dello spettacolo quali, Dario Fò,(3) Ugo Tognazzi,(4) Raimondo Vianello(5), Giorgio Albertazzi,(6) Enrico Maria Salerno,(7) e tantissimi altri, entrano nelle file dell'esercito repubblicano.

  Altri personaggi famosi del mondo dello spettacolo, quali gli attori cinematografici, Osvaldo Valenti e Luisa Ferida faranno parte della RSI, sino alla tragica conclusione della loro vita; nonostante la loro comprovata innocenza saranno barbaramente trucidati a Milano nei giorni della "liberazione"(10).

  Nelle file partigiane, al contrario, rilevando i dati ufficiali del CLN. saranno ben pochi i giovani che, sino all’avanzata primavera del 1944, entreranno a far parte di quello schieramento.(11)

  A Roma, agli inizi di Ottobre del 1943, il Maresciallo Rodolfo Graziani, tenne un memorabile discorso, ad un grande raduno di Ufficiali al Teatro Adriano, che mobilitò moltissimi giovani ufficiali e militari del disciolto esercito. Soldati, graduati, sbandati in quel tragico periodo dopo l'8 settembre e in seguito alla presa di posizione del nuovo fascismo repubblicano, che cercava di salvare l'Italia dalle prepotenze dell'ex alleato tedesco, dopo il tradimento badogliano di Cassibile, affluirono via via, nelle caserme del ricostituito esercito repubblicano.(12)

  Nel mese di Ottobre del 1943, assente quasi completamente la componente antifascista, la RSI poté operare in modo graduale la sua autonomia dalla pressante tutela germanica, operando in tutti i settori della vita pubblica cercando di ricucire e di rinnovare i rapporti tra le varie classi sociali in tutti i settori della società italiana.(13)

  In quei giorni vi fù il richiamo delle classi 1923-24-25 e non tutti, negli ambienti fascisti, videro bene questa mossa di Mussolini. I più intransigenti volevano un esercito di partito composto solamente da volontari; anzi il loro motto era questo: "Chi non sente la necessità morale e spirituale di impugnare le armi in difesa della Patria tradita deve restarsene a casa".

  Mussolini fu però irremovibile; egli sapeva molto bene che la relativa autonomia che godeva in quel periodo iniziale il governo della RSI, non derivava dalla forza specifica che era nelle sue mani, ma dalla stima che il Capo tedesco aveva nei suoi confronti. Per fare della RSI un soggetto attivo di storia in quel quadro di immensa tragedia che stava sconvolgendo l'Europa, era necessario costruire un esercito efficiente e perfettamente disciplinato, anche per fronteggiare gli interessi egoistici dei tedeschi ai quali, in quel frangente, interessava più avere un’Italia occupata in condizioni di assoluta dipendenza.(14)

Torna all’inizio

  All'appello, fatto dal Governo Repubblicano ai giovani di leva, risposero pertanto in numero altissimo i giovani e la risposta andò, in quel momento, oltre le più rosee previsioni.

  Alla data del 30 Novembre 1943, ultimo giorno per presentarsi nelle caserme, l'83% dei richiamati aveva risposto all'appello.(15)

  Questa vasta partecipazione delle nuove reclute ai richiami della Repubblica Sociale Italiana, non è mai stata digerita dalla storiografia antifascista; difatti troviamo notevoli contraddizioni in molte pubblicazioni agiografiche resistenziali. Nelle storie locali riguardanti espressamente il nostro territorio viene, ad esempio, riportata come fonte attendibile(16) il dato sulla situazione regionale al 13 Dicembre 1943 che dava per l'Emilia e Romagna un totale di 17.248 giovani tra volontari e reclute presentatisi ai Comandi del nuovo esercito repubblicano. Contemporaneamente nello stesso testo è tacciato di falso l'autore della grandiosa opera pubblicata su quel periodo: "Storia della guerra civile", Giorgio Pisanò il quale sottolinea l'alta percentuale di iscritti al PFR in tutte le Provincie emiliane.(17)

    "In mezzo alle menzogne ed ai falsi...il neo fascista Pisanò avanza per Modena una notizia esatta, in altre parole la partecipazione del fascismo giovanile alla Rsi e l'assenteismo di molti vecchi fascisti."(17bis)

    Lo stesso autore resistenziale cita inoltre molti altri storici partigiani locali, i quali affermano che quella chiamata non aveva dato risultati disastrosi per la RSI.

  Si cerca poi, di fare un distinguo tra coloro che si presentarono nelle file della Milizia e dell'esercito repubblicano e quelli reclutati dai tedeschi "per amore o per forza", precisando che certamente 70-80 mila uomini furono quelli che si presentarono spontaneamente, mentre altri 40-50 mila erano appunto stati reclutati forzatamente.

  Su 180.000 chiamati nel Nord Italia, se ne presentarono 120-130 mila, ma non può essere presa completamente, per buona, la percentuale riportata dall'autore resistenziale, in quanto, a quel 13 Dicembre 1943, mancavano i dati di molte provincie quali: Como, Mantova, Arezzo, Pisa e Livorno. Sempre nel testo dal quale sono stati desunti i dati che andiamo citando, per quanto riguarda la Provincia di Modena si confessa di non aver nessun dato organico per il territorio modenese; in compenso si dà per scontata la completa risposta delle reclute in quel di Mirandola e San Felice mentre si precisa che nel carpigiano ci sarebbero stati 130 renitenti e 65 tra Monfestino e Serramazzoni.(18)

  Si può dunque dire, in tutta certezza, ed è un dato ormai storicamente provato, che fu la maggioranza dei giovani a aderire al nuovo esercito repubblicano, mentre è altrettanto storicamente provato che furono ben pochi quelli che si diedero alla macchia per iniziare la carriera di partigiani. Moltissimi tra coloro che in quel periodo si nascosero e non si presentarono alle varie chiamate non risposero, né alle sirene fasciste né a quelle antifasciste, cercando semplicemente di far trascorrere il tempo nella speranza che gli avvenimenti precipitassero rapidamente, per poi uscire allo scoperto al momento in cui si poteva giocare la carta vincente.

Torna all’inizio

  Resta inoltre sempre da stabilire, con obbiettività, il numero di coloro che in quel periodo iniziale si diedero all'attività partigiana: come è sottolineato nel testo resistenziale dal quale abbiamo avuto questi dati, la legge partigiana prevedeva, per il riconoscimento di quella qualifica, la partecipazione ad almeno tre azioni armate.

  Nella Provincia di Modena al 31 Dicembre 1943 i partigiani sarebbero stati 1299 (precisamente 1169 partigiani più 130 patrioti).(19)

  E' abbastanza semplice rilevare che se queste milletrecento persone avessero tutte partecipato ad almeno tre azioni armate, la lotta partigiana in provincia di Modena, avrebbe assunto, in quel primo periodo, ben altra dimensione. Tutto questo in netto contrasto rispetto a quello che è possibile rilevare dalle fonti antifasciste che, tutte, concordano nel limitare l'attività clandestina a pochissime azioni.

  Sempre a questo proposito e tenendo conto che il PC era pur sempre il Partito meglio organizzato e più impegnato di tutto il CLN, lo stesso autore del testo sopracitato, non si può nascondere, in contraddizione con certe valutazioni apologetiche che si trovano nella maggioranza dei testi che trattano della resistenza, la difficoltà di penetrazione di tale attività nei vari strati della popolazione sia in città sia nelle campagne. Non può inoltre trascurare, quanto gran parte della pubblicistica e della saggistica, specialmente quella relativa alle nostre zone, abbondi di iperboliche narrazioni, di retorica e di autoesaltazione.

    "E' anzi necessario sottolineare immediatamente che il processo di militarizzazione del partito comunista fù estremamente rapido, quello di utilizzazione delle strutture armate in azioni contro uomini fù lento, controverso e diede adito ad uno scontro generazionale, in un primo tempo a successivi cambiamenti dei quadri dirigenti, militari e politici, poi fino a giungere, negli ultimi giorni del Dicembre '43 alla sostituzione dello stesso segretario di federazione."(20)

    Viene inoltre così commentato questo passo, in una nota in proposito:

    "La leggenda di grosse azioni a Modena sin dall'autunno 1943 che trovò largo spazio nelle prime pubblicazioni della resistenza, continuano purtroppo ad inficiare anche recenti (e del resto ottime) pubblicazioni come: "La lotta armata" di L. Bergonzini."

    Ancora: in un rapporto al "centro del partito" (comunista) un capo partigiano, citato dallo stesso autore, rilevava che al 16 Dicembre 1943, la situazione era la seguente:

    "pur essendo nelle quattro Provincie ( Modena, Parma, Reggio, Piacenza ) l'organizzazione ancora in via di sviluppo ne risultava comunque un "partito poco legato alle masse" nei confronti delle quali a volte vie era "debole fiducia".

  Questo era certamente uno degli elementi che causava "una notevole pesantezza nel prendere tempestivamente certe iniziative" altro elemento di freno era l'attesismo che annebbia ancora il cervello di molti" forse anche per la paura di lasciarci la pelle".(21)

    Torna all’inizio

  LE FORZE ARMATE DELLA RSI NEL MODENESE

    Come abbiamo potuto vedere, subito dopo l'8 Settembre, i fascisti modenesi riprendono velocemente i loro posti; si organizzano in modo da tamponare la tracotanza tedesca e, man mano che l'apparato governativo della nuova repubblica comincia a funzionare, un sempre maggior numero di uomini si arruola nel nuovo esercito e nelle strutture parallele.

  Il fascismo repubblicano modenese è uno dei primi del Nord Italia a rinascere dalle ceneri dell'incredibile periodo badogliano e, a farne parte saranno, nella maggioranza, giovani ed idealisti che vedevano nel nuovo Mussolini riscoprirsi quegli ideali che durante il ventennio si erano in parte affievoliti o che, per cause contingenti e per il bene supremo della Nazione, si erano dovuti momentaneamente accantonare.

  I corpi militari a Modena, durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana, erano organizzati nelle varie strutture che, sinteticamente, andremo ad esaminare una per una:

 

  COMANDO MILITARE PROVINCIALE.

 

  Il 3 Novembre 1943 si costituisce a Modena il 42° Comando Militare Provinciale; era alle dirette dipendenze del 202° Comando Militare Regionale e portava il n. 797 di posta da campo. Il Comando fu tenuto, inizialmente, dal Colonnello Costantino Rossi, sostituito in seguito dal Colonnello Antonio Petti.

  Il 47° Distretto Militare, che aveva sede nella Caserma "Fanti" in Via Saragozza, sopravvisse, senza soluzione di continuità ai fatti dell'8 Settembre.(22)

Torna all’inizio

    SCUOLA ALLIEVI UFFICIALI DELLA GNR

    Nel mese di Febbraio del 1944 è costituita la Scuola Allievi Ufficiali, presso la Caserma: "Ciro Menotti". I giovani allievi ufficiali, che provenivano dai Comandi Provinciali delle GNR della Lombardia, della Toscana e del Veneto, raggiunsero il numero di 550 effettivi: al comando di questa Scuola venne posto inizialmente il Colonnello, Ignazio Battaglia sino al 25 Agosto 1944 e, successivamente il Tenente Colonnello, Chiavellato.(23

  Ebbe varie dislocazioni: iniziale a Modena, poi a Mirandola, Velo d'Astico (Vi) e Bellano.(Como) Il 4 Novembre 1944 venne sciolta.

  Oltre ai Comandanti citati, la Scuola Allievi Ufficiali di Modena aveva la seguente struttura:

  Vice Comandante: Ten. Col. Sbrozzi Dino;

  aiutante maggiore: Perfetti.

  Ufficiale di Amministrazione: Maggiore Moccia.

  Ufficiale Cappellano: Don Gino Marchesini.

  Ufficiale dei materiali: Capitano Conti;

  Ufficiale medico: Ten. Capizzi;

  Ufficiale pagatore: S. Ten. Carra Francesco;

  Ufficiale al vettovagliamento: Capitano Carta e Capitano Borelli Tommaso;

  L'Ufficio Studi della Scuola era così composto:

  Maggiore Cova Orazio, Capo Ufficio;

  addetto ai regolamenti, Capitano Anglana;

  Logistica: Cap. Conti:

  addetto ai collegamenti: Capitano, Orsolini;

  Ufficio Topografia: S. Tenente Garibotti;

  Ufficio Educazione Fisica: Ten. Laschi Dario;

  plotone esploratori: Ten. Licita Bruno;

  il battaglione allievi ha avuto come comandanti il Maggiore, Cova Orazio ed il Maggiore Ciaramidaro.

  Alle quattro compagnie allievi erano addetti i seguenti Ufficiali:

  1° Compagnia: Maggiore Ciaramidaro poi Capitano Lauro Anglana;

  2° Compagnia: Capitano Langella Alfio; Ufficiali, Ten. Della Longa, Scacchiotti Giuseppe e Di Nunno Vincenzo;

  3° Compagnia: Ufficiali: Langella Alfio, poi Romiti Romeo, S. Ten: Cianetti e Lorenzi;

  4° Compagnia: Ufficiali: Orsolini Carlo e S. Ten. Romiti Romeo.(24)

  Gli allievi della Scuola di Modena, presero parte a parecchi scontri con i partigiani, dalla Primavera 1944, sia sul nostro Appennino sia nella zona del Comasco, dove, a Bellano, era stata trasferita.

  Subirono parecchie perdite nel 2° bombardamento aereo sulla città di Modena, in quanto alcune bombe colpirono la caserma Ciro Menotti. Molti Allievi ufficiali vennero uccisi in molte imboscate ed agguati tesi loro dai partigiani.

  

  GUARDIA NAZIONALE REPUBBLICANA

  A Modena ebbe sede il 633° Comando Provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana, già 72° Legione "Farini". Comandante fu il Colonnello Antonio Petti, che venne fucilato al termine della guerra.(25)

  L'organico del 633° Comando della Gnr era così composto:

  Vice Comandante: Ten. Col. Sartorelli Arturo;

  aiutante maggiore: Niccolai;

  Dirigente del Servizio sanitario: Ten. Col. medico: Giunta Dott. G;

  Il battaglione territoriale era al Comando del Maggiore Arturo Mori.

  I distaccamenti della GNR nella Provincia di Modena erano dislocati nelle seguenti località:

  Carpi, Castelfranco Emilia, Cavezzo, Lama Mocogno, Maranello, Mirandola, Pavullo, Sassuolo, Spilamberto e Vignola.

  Al Comando della 633° compagnia OP,(26) era il Capitano Piva Bruno che aveva come sottufficiali il S. Ten. Legitimo Marcello e il S. Ten. Virgili.

  Moltissimi furono i militi e gli Ufficiali della GNR che vennero uccisi dai partigiani in agguati ed imboscate, oltre a tantissimi trucidati al termine della guerra.

Torna all’inizio

    BRIGATE NERE

  Nel Giugno 1944, in seguito alla deteriorata situazione sul fronte interno e in seguito all'entrata in Roma delle truppe angloamericane, oltre all'intensificarsi dell'attività partigiana, con i continui agguati ed uccisioni di tedeschi e fascisti, Mussolini, con decreto legislativo, promulgò la trasformazione politico-militare del Partito Fascista Repubblicano, in organismo di tipo militare, costituendo il Corpo Ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie Nere, chiamate in un secondo tempo, "Brigate Nere".

  A Modena si costituì il XXVI° Reparto della Brigata Nera al quale venne imposto il nome di uno squadrista modenese ucciso a Zocca pochi giorni prima dai partigiani: "M. Pistoni".(27)

  Alla Brigata Nera modenese è stata addossata, dalla propaganda antifascista, ogni tipo d'infamia. Con il gioco delle parole e della deformazione dei fatti, oltre al martellante ed asfissiante lavaggio del cervello, nell'opinione pubblica è stata creata l'equazione: Brigata Nera = criminali.

  E' ora di sfatare anche questa leggenda e per far questo sarebbe sufficiente ricordare le innumerevoli vittime che, sia durante i 600 giorni, sia al termine della guerra, sono state immolate dal moloc comunista nella ricerca, assurda, di eliminare ogni traccia di fascismo con i metodi più abbietti e crudeli.

  I militi della Brigata Nera, sorta con il compito di proteggere le popolazioni civili dalle "bande" partigiane, si trovarono continuamente esposte a innumerevoli attentati tesi loro con la ben nota tecnica comunista del "colpire e fuggire", che tanti lutti ha provocato tra le truppe tedesche e fasciste oltre che sulla popolazione civile, coinvolta in molti casi nelle rappresaglie e in molti casi innocente.   

  Militi delle "brigate nere" erano tutti coloro che, dai 18 ai 60 anni, alla data del 1° Luglio 1944, erano iscritti al Partito Fascista Repubblicano. Tra loro vi erano vecchi squadristi e giovanissimi idealisti, entrambi ebbero il coraggio di arrivare sino all'olocausto, indossando quella camicia nera nella quale avevano fortemente creduto, come tanti altri prima, ma che però furbescamente, al momento del crollo ebbero la faccia tosta di "saltare il fosso" con estrema disinvoltura, salvando la pelle o evitando tutte le conseguenze, quali campi di concentramento, epurazioni e vessazioni di ogni genere alle quali furono sottoposti i sopravvissuti.

  Ma questi combattenti, che erano regolarmente inquadrati e che si sono sempre esposti ad ogni sorta di pericolo, erano i primi ad accorrere in soccorso delle popolazioni quando queste ne avevano necessità, vessate come erano dai continui bombardamenti e dai micidiali mitragliamenti degli anglo-americani, oltre che dalle scorribande ed ai "prelevamenti" dei partigiani. La brigata nera non ha più colpe, se di colpe in alcuni casi si può parlare, di quante ne abbiano potute avere le altre formazioni dell'esercito repubblicano.

  I militi della brigata nera erano i più esposti alla rappresaglia dei partigiani, e da questi i più odiati, in quanto rappresentavano la parte più intransigente, ma anche più schiettamente popolare, del nuovo fascismo repubblicano. In tutta la Provincia di Modena furono continuamente bersagliati dagli attentati dei "ribelli" ed ebbero il maggior numero di trucidati nel periodo successivo al 25 Aprile.

  La Brigata Nera "M. Pistoni", era costituita dal 1° e dal 2° Battaglione; ogni battaglione era a sua volta suddiviso in tre compagnie. Ne furono comandanti: sino all'Ottobre 1944, Solmi Gian Paolo, poi, sino alla fine, Tarabini Giovanni.(28)

    COMANDO RECLUTAMENTO "SS ITALIANE"

    Il Comando dell'Ufficio reclutamento delle SS italiane era situato a Modena, in un primo tempo presso la Caserma Garibaldi, poi venne trasferito in Via Gaetano Tavoni 40.

  Comandante era il Capitano Giacomo Sacchi, coadiutori il caporal maggiore Aldo Vandelli ed il soldato Gualtiero Demenego.(29)

Torna all’inizio

    LE FORZE ARMATE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA RIFERITE A TUTTO IL TERRITORIO    

  Il totale delle forze che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana, su tutto il territorio Nazionale fu di oltre 800.000 unità. Erano così suddivisi:

    ESERCITO

  - Stato Maggiore dell'Esercito.

  - 1° Divisione: Bersaglieri, "Italia".

  - 2° Divisione: Fanteria, "Littorio".

  - 3° Divisione: Fanteria di Marina: "San Marco"

  - 4° Divisione: Alpina: "Monterosa".

  Unità’NON INDIVISIONATE:

  - Raggruppamento, "Cacciatori degli Appennini".

  - Raggruppamento, "Reparti antipartigiani"

  - Reparti autonomi bersaglieri : - 3° Regg. Bersaglieri Volontari.

                                  - Regg. to Bersag. Volontari, "L. Manara"

                          TOTALE 405.000 uomini

Torna all’inizio

    GUARDIA NAZIONALE REPUBBLICANA

  - Comando

  - Ispettorati Regionali e Provinciali

  - Reparti Operativi:

         - Guardia del Duce.

         - Granatieri.

         - Reparti d'assalto, reparti carro, reparti paracadutisti

           reparti controcarro, reparti autonomi.

  - G.N.R. : Confinaria, Costiera, Ferroviaria, Postelegrafonica, Forestale, Portuale, Stradale.

     - Scuole Allievi Ufficiali.

                                               TOTALE 150.000 uomini

    DECIMA MAS

  - Comando

  - Attività navali, terrestri, servizio ausiliario.

  - Reparti operativi:

          - Fanteria di marina, reparti speciali, reparti artiglieria,

            genio, guastatori, bersaglieri.

                                              TOTALE 25.000 uomini

    MARINA REPUBBLICANA

  - Stato Maggiore

  - Fanteria di Marina

  - Flotta da guerra: tonnellate complessive. 469.082.

  Hanno effettuato azioni di guerra:

  - 2 Incrociatori - 8 Cacciatorpediniere - 28 Torpediniere - 31 Sommergibili - 26 Corvette - 7 Mas - 4 Vedette antisommergibili - 2 Motosiluranti - 3 Posamine - 12 Dragamine - 11 navi ausiliarie - 9 Trasporti - 46 Rimorchiatori - 12 Cisterne

                                           TOTALE 26.000 uomini

  Torna all’inizio

  AEREONAUTICA REPUBBLICANA

  - Stato Maggiore

  - Officine, magazzini.

    Reparti operativi:

  - Caccia - Bombardamento (non operanti) - Aerosiluranti - Trasporti - Artiglieria contraerea - reparti arditi paracadutisti, battaglioni anti paracadutisti.

                                           TOTALE 79.000 uomini

    BRIGATE NERE

  - Comando

  - BB.NN. mobili

  - 39 Raggruppamenti di Brigate Nere territoriali.

                                             TOTALE 110.000 uomini

  LEGIONE AUTONOMA "E. MUTI"

  - Comando

  - Reparti vari

                                             TOTALE 3.500 uomini

    SERVIZIO AUSILIARIO FEMMINILE

  - Comando

  - Comandi Provinciali

  - Scuole e corsi speciali in numero di 6.

                                             TOTALE 5.500 donne   

    FIAMME BIANCHE

  - Reparti giovanissimi per l'assistenza alla popolazione

                                             TOTALE  5.000  ragazzi

 

       Totale generale, tra Ufficiali e soldati :  809.000(30)

Torna all’inizio

    NOTE

  1    cfr. G. Pisanò: "Gli Ultimi in grigioverde"

  2 a 9 ibidem pagg. 1821, 1815, 1748, Vol. 3°; pag. 1189 Vol. 2°.

  10    cfr. Aldo Lualdi: "Morire a Salò" . La storia della uccisione dei due attori: cosi riferisce questo autore in merito alla responsabilità di Sandro Pertini, ex Presidente della Repubblica, e capo partigiano, in merito alla fucilazione dei due famosi attori:

  "...Nò niente indagini: Valenti è un Ufficiale della Decima Mas, la famigerata formazione messa in piedi dal principe "nero" Junio Valerio Borghese. Ne sono stati massacrati dei partigiani dai marò della Decima. La popolarità dei due attori è stata messa al servizio degli aguzzini: tutto il resto è dettaglio che perde d'importanza; in definitiva: fucilazione. Sandro Pertini non vuole neanche più discutere il caso.."

  11   cfr. svariate pubblicazione della storiografia antifascista nel modenese, in particolare: L. Casali: "La resistenza a Modena".

  12   cfr. i dati riportati in questo stesso capitolo.

  13   Il 25 Ottobre 1943, il Governo del Reich ordinò il ritiro dei marchi di occupazione che erano stati messi in circolazione in Italia dopo l'8 Settembre, prima che venisse liberato Mussolini e prima della costituzione della RSI.

  14   cfr. Numerose pubblicazioni, con riferimento alla bibliografia al termine del volume.

  15   cfr. W. Deakin: "I seicento giorni di Salò". L'autore, nel sottolineare la vasta partecipazione dei giovani alla chiamata del nuovo esercito repubblicano dice testualmente che: "i giovani risposero quasi al completo in Emilia".

  16   cfr. L. Casali, op. cit. pag. 188

  17   cfr. G. Pisanò: "Storia della guerra civile"

  17bis cfr. L. Casali, op. cit. pag. 182

  18   ibidem

  19   ibidem pag. 330

  20   ibidem pag. 294

  21   ibidem pag. 308

  22   cfr. G. Pisanò op. cit.

  23   ibidem

  24   ibidem

  25   ibidem

  26   ibidem

  27 Il milite Mirko Pistoni venne ucciso dai partigiani a Zocca, il 21 Giugno 1944, (vedi nella cronaca) assieme ad altri cinque fascisti.

  28   cfr. vari numeri della Gazzetta dell'Emilia di quel periodo.

  29   cfr. R. Lazzero: "Le SS Italiane" pag. 60

  30   cfr. G. Pisanò: "Gli ultimi in grigioverde".

 

Torna all’inizio

La “Repubblica” di Montefiorino

Degli avvenimenti del Giugno-Luglio 1944 nella zona di Montefiorino, la propaganda comunista e resistenziale in genere hanno creato uno dei punti cardine dell’"epopea", facendoli passare tra gli episodi più espressivi, dal loro punto di vista, di tutta la guerra civile. Esaltandoli in tempi a noi vicini con un continuo proliferare di pubblicazioni e di celebrazioni tendenti a mitizzare quella che fu chiamata, molto pomposamente: "La repubblica di Montefiorino".(1)

E' giunto il momento, sebbene a tanta distanza di tempo, di esaminare con obbiettività i fatti che portarono quella zona dell’Appennino modenese, in primo piano delle due parti in lotta in quel drammatico periodo e che furono, per le popolazioni del luogo, fonte di tremendi lutti e di terribili distruzioni.

Abbiamo visto come nel mese di Maggio e nei primi quindici giorni di Giugno, rispetto ai mesi precedenti, la guerriglia fosse aumentata d’intensità con un succedersi sempre più frequente, d’imboscate ed agguati alle truppe tedesche e fasciste. Sia in pianura sia in montagna i partigiani, alimentati in continuazione dai lanci aerei anglo-americani, che sull'onda del successo ottenuto e dallo sbarco in Normandia e dall'avanzata sul suolo italiano con la conquista della capitale, fomentavano sempre più la guerra civile, cercando di creare in questo modo il maggior danno possibile alle retrovie tedesche, di conseguenza i "ribelli", aumentano decisamente le loro azioni:

 "Armi automatiche, soprattutto americane come il famoso fucile mitragliatore "Thomson" e l'altrettanto famosa pistola mitragliatrice "sten" (inglese), scendevano veleggiando dal cielo con i grande paracadute di seta bianca o colorata: particolarmente nell'Appennino tosco-emiliano per le formazioni partigiane collegate con le missioni alleate, ed ebbero un particolare impiego nella serie dei combattimenti di Montefiorino."(2)

 In questo proliferare d’agguati, imboscate ed uccisioni e per il maggior concentramento in quelle zone di partigiani comunisti che raggiungevano qualche migliaio d’uomini, appunto ben forniti d’armi dai lanci paracadutati, oltre ad un battaglione sovietico composto da ex prigionieri fuggiti dai campi di concentramento dopo l'8 Settembre, i piccoli presidi fascisti della Valle del Dragone, per meglio organizzarsi attraverso una tattica che li avrebbe dovuti riportare a presidiare con maggiore sicurezza quei territori, furono costretti ad abbandonare i loro capisaldi.

I capi comunisti avevano deciso di concentrare in queste contrade, a potenziamento della brigata "Roveda", tutte le nuove leve partigiane, assieme a quelle comandate da "Armando" in modo da costituire un grosso reparto che doveva prendere il nome di "Prima Divisione Garibaldi".

Il Comando Provinciale della GNR, costatando le notevoli difficoltà a mantenere i collegamenti con i piccoli presidi di quelle zone della montagna modenese, già dal 15 Giugno aveva ordinato il ripiegamento da Montefiorino a Piandelagotti.

In quel giorno, tutta la zona che va’ da Prignano Secchia sino a Nord di Piandelagotti, escluso il paese di Montefiorino, era praticamente sguarnita dalle forze italo-tedesche e per diretta conseguenza, sotto controllo partigiano; i comandi di questi erano entrati in un vero e proprio clima d’euforia, avendo avuto in mano senza eccessivi sforzi e praticamente senza colpo ferire, un vasto territorio di oltre 700 Km. quadrati.

I fronti tedeschi in Italia e nelle altre zone europee, intanto cedevano sotto la pressione angloamericana; i presidi militari della Valle del Dolo e del Dragone si erano allontanati e anche quello di Montefiorino, composto da circa sessanta uomini, stava per abbandonare la Rocca; migliore occasione non poteva capitare alle bande partigiane. Nacque così l'idea, a conferma delle tesi della non programmazione di tali avvenimenti, di costituire, (com’era già avvenuto in altre parti d'Italia dove zone "franche" venivano chiamate repubbliche partigiane) un territorio libero che, solo a posteriori, sarà chiamato "Repubblica di Montefiorino".

Torna all’inizio

Il giorno 17 Giugno si prepara da parte delle forze "ribelli", la "liberazione" di quel centro:

  "la situazione era piuttosto favorevole, i vari presidi circostanti erano fuggiti e le forze partigiane avevano circondato l'ultimo drappello nemico rimasto in montagna".(3)

Ma non tutti i partigiani erano d'accordo se attaccarlo oppure attendere la partenza del presidio che aspettava il momento buono per ripiegare, come gli era stato ordinato. Prevalse la tesi dell'azione, anche perché la sproporzione delle forze era enorme: migliaia di "ribelli" concentrati in quella zona e solamente sessanta fascisti asserragliati nella Rocca di Montefiorino.

All'alba del giorno 18 Giugno i partigiani "sferrano" l'attacco; il gruppetto di militi fascisti oppose una debole resistenza cercando di sfuggire all'accerchiamento e in quella piccola schermaglia vi fu un solo caduto di parte fascista, mentre tutti gli altri vennero catturati per essere poi, nella maggior parte, trucidati dagli occupanti.

Così i partigiani entrarono in Montefiorino:

 "....io Balin, ed alcuni altri partigiani arrivammo davanti al portone d'ingresso della Rocca. A quel punto Balin mi fermò "mi hanno detto che la Rocca è minata: lasciamo andare avanti Levoni ( un prigioniero fascista poi fucilato ). " No dico io, entriamo prima noi e Balin mi saltò davanti "lascia che vada avanti io ecc"..; con una mano lo spinsi indietro, " No sono io il più elevato in grado ed ho il diritto di entrare per primo nella Rocca." Entrai sventagliando una raffica di mitra. La Rocca era ormai abbandonata e vuota."(4)

 Hanno inizio così i quarantacinque giorni della "repubblica rossa" con a capo il partigiano Teofilo Fontana, in qualità di Sindaco.

 "La popolazione, che pure veniva accusata di simpatia verso i fascisti, ci accolse con entusiasmo ed in realtà si sentiva liberata dallo stato d'incertezza tra fascisti e partigiani."(5)

 Va’ detto però, che per il paese giravano centinaia di partigiani armati e pronti a tutto, e le popolazioni della zona erano bene al corrente di come questi non andassero tanto per il sottile, dato che bastava un nonnulla o un piccolo sospetto per essere passati direttamente per le armi.

Alla notizia che dietro le linee tedesche si era costituita una "zona partigiana", il Comando angloamericano provvide ad inviare una numerosa missione con il compito di stabilire dei collegamenti.

Assieme al massiccio invio di materiale aviolanciato, si cercò di elaborare un piano che avrebbe dovuto fare di quella "zona libera" un elemento strategicamente decisivo nel quadro dell'offensiva verso la valle del Po’.

Lo stesso partigiano "Armando", definì questo piano, "effettivamente ambizioso", sottolineando inoltre di quanto i tedeschi fossero allarmati per questa situazione.

Torna all’inizio

Nelle numerosissime opere sulla resistenza, il mito della Repubblica di Montefiorino viene raccontato in tutti i risvolti, anche i più banali; si va’ a sottolineare l'opera attiva e feconda degli uomini che si erano venuti a trovare in questo territorio, vengono raccontati i vari problemi quotidiani, quali l’approvvigionamento viveri, il funzionamento dell'Ospedale di Fontanaluccia, il problema dei mezzi di trasporto e delle officine, oltre a come vennero portate avanti le operazioni per effettuare sbrigative elezioni.

Ma ben poco spazio viene dato all'argomento giustizia e di come funzionarono i cosiddetti "tribunali del popolo", oltre a nascondere il trattamento riservato ai prigionieri, tedeschi, fascisti o presunti tali. Si avrà modo di vedere dettagliatamente nella parte cronologica quanti furono, e in quale modo, gli uccisi in quei giorni di "pieno rispetto delle libertà democratiche".

Bisogna, tra l'altro, mettere in evidenza che, contrariamente a quanto era avvenuto sino a quel momento, in tutta la Provincia modenese, dove i fascisti o presunti tali venivano uccisi solo da mano comunista, quanto invece accadde a Montefiorino, dove tutti i partiti politici che componevano il CLN, si trovarono concordi nelle condanne a morte dei prigionieri. Certa storiografia resistenziale rileva come i comandi militari partigiani procedessero molto spesso a delle vere e proprie "purghe" di tipo staliniano, fucilando oltre a nemici dichiarati e "spie", anche partigiani "indegni"; e con questa definizione potevano essere "giustiziati", sia delinquenti comuni, ma anche personaggi scomodi politicamente. La storiografia resistenziale, pur precisando che, in fondo, certe decisioni di giustizia sommaria erano isolate e prese da pochi, si compiace che a Montefiorino la decisione di uccidere i fascisti, fosse presa all'unanimità.(6)

 "Ora invece queste gravi deliberazioni erano assunte con la piena responsabilità di tutti, perché nel Tribunale Militare di Montefiorino tutte le correnti politiche del CLN erano rappresentate."(7)

 Molti religiosi hanno rilasciato testimonianze, agli storiografi resistenziali, alquanto significative circa il modo di amministrare la giustizia in quella "repubblica"; ne citiamo alcune:

 "Un giorno seppi che a Montefiorino il Tribunale partigiano aveva condannato a morte degli uomini. Venne con mè Don Benedetto Richeldi e ci recammo subito al Comando. Rammento che c'era colui che diventò poi Sindaco a San Felice. Domandai di poter vedere questi condannati e fui io che dovetti avvertirli che sarebbero stati fucilati. Li esortai a prepararsi alla morte. Dopo scene di disperazione e di pianto si confessarono e mi consegnarono dei biglietti da fare avere ai loro parenti cosa che feci naturalmente subito."(8)

 Don Giuseppe Guicciardi, Cappellano a Gombola, nel raccontare dell'episodio di un fascista "torturato" dai partigiani, rimproverò "coraggiosamente" il comandante partigiano "Tom", con queste parole:

 "Non dovete imitare i nemici nelle cose peggiori che fanno, anche se sono i vostri compagni di lotta che sopportano delle crudeltà. Se dovete fucilare qualcuno, fatelo, ma non torturate nessuno. E questo quì, che ha avuto la sua parte, lasciatelo ora in pace."(9)

 In un altra storia, delle tante, che raccontano i "fasti" della resistenza, così si parla dell'esecuzione di altri fascisti:

 "Il 26 Giugno 1944 "Don Luigi" (Don Elio Monari) confortò con i sacramenti quattro sergenti repubblicani che vennero giustiziati a Pianellino. Il 29 Giugno altri tredici tra repubblichini, borghesi e tedeschi furono giustiziati ma non fu avvisato e lo seppe a esecuzione avvenuta con suo grave dispiacere. Nella predica del 29, festa di San Pietro e Paolo disse parole un pò forti alludendo ai fatti del mattino."(10)

 Non può sfuggire, a coloro che si sono cimentati nella lettura della storiografia resistenziale in genere, siano essi stati attenti lettori o superficiali, quanta importanza abbia in quelle storie il lessico usato, in particolare quando si tratta di prendere in esame l'uccisione di fascisti militari o borghesi che fossero. Il fascista viene sempre "giustiziato", mentre il caduto partigiano viene sempre, "barbaramente trucidato" dai nazi-fascisti; di conseguenza viene evidenziata l'equazione, giustizia partigiana, giusta ed infallibile, al contrario i vinti erano solamente dei barbari.

Torna all’inizio

In merito alle fucilazioni dei fascisti di Montefiorino è molto interessante la versione che viene data da uno dei principali responsabili di queste, in un’intervista pubblicata su di un testo resistenziale:

 "Domanda: a Montefiorino si pose realmente anche il problema dei prigionieri. Se prima era neccessario fucilarli, perché troppo pericoloso sarebbe stato trascinarseli dietro, ora esisteva una prigione, la possibilità di giudicarli con calma, magari di inviarli oltre le linee, dagli alleati.

Risposta: Il problema dei prigionieri era prima di tutto militare. La guerra di repressione da parte dei nazisti e dei fascisti si era sviluppata sulla base del terrore che mirava togliere alle masse popolari ogni spirito di ribellione ed ogni iniziativa di lotta. Con la conquista di Montefiorino e la cattura dei prigionieri noi dovevamo rispondere a quella azione di repressione, dovevamo prendere delle misure che significassero la radicalizzazione della lotta con l'esclusione di qualsiasi connivenza o accordo con la repressione nazifascista. Non dimentichiamo che i fascisti, attraverso intermediari, avevano cercato con noi un accordo sulla base di un reciproco rispetto delle zone d'influenza. In altre parole i tedeschi e i fascisti offrivano una tregua se i partigiani si impegnavano a rimanere nelle loro zone senza attaccare i fascisti ed i tedeschi delle zone che premevano a loro, cioè le vie di comunicazione. La liberazione di tutti i prigionieri di Montefiorino avrebbe significato una debolezza da parte delle forze combattenti partigiane che avrebbero dimostrato di cercare così un modus vivendi con le forze della reazione; sarebbe stato come un primo passo di avvicinamento. E noi questo non lo volevamo. Dei prigionieri fatti a Montefiorino ne abbiamo fucilato la metà e precisamente quelli che erano volontari e quelli che si erano compromessi nelle reazioni precedenti; mentre invece liberammo quei militi che risultavano giovani e di leva questo come incoraggiamento a fuggire per gli altri giovani costretti con la violenza ad entrare nelle forze repubblichine. D'altro canto l'esecuzione dei vecchi significava la radicalizzazione della lotta, significava il rifiuto di qualsiasi compromesso, di qualsiasi intesa con le forze della reazione."(11)

 A proposito dei prigionieri fascisti di Montefiorino, un ulteriore testimonianza, sempre tratta dai testi resistenziali, riferisce di incredibili torture inflitte a tedeschi, italiani, militari e civili: racconta di giovani legati ai polsi e appesi in punta di piedi, lasciati in quella posizione sino a quando la circolazione del sangue ne veniva bloccata, poi slegati e selvaggiamente percossi per giorni e giorni ininterrottamente prima della loro esecuzione.(12)

Il Parroco di Gusciola di Montefiorino, Don Angelo Santi, in una sua testimonianza, cita la tragica fine di alcuni fascisti di Montefiorino compresa quella di certo Martini Ercole e della di lui moglie bruciata viva nella casa cui avevano dato fuoco, in quanto non aveva voluto aprire ai partigiani rossi.(13) Arriviamo così alla metà di Luglio; secondo alcune tesi, anche di parte fascista, il Comando tedesco, forse sopravalutando il grado di efficienza della brigata partigiana che teneva in mano Montefiorino e per non togliere dal fronte e dai punti "caldi" un certo numero di soldati da impiegare in un’azione nelle retrovie, inviò al Comando partigiano un Ufficiale incaricato di trattare una tregua.

Le proposte tedesche offrivano al Comando del CLN la sospensione di ogni operazione offensiva nel territorio da loro controllato ed inoltre si sarebbero impegnati a rilasciare tutti gli ostaggi, sia civili che militari, già nelle mani dei "reparti di sicurezza".(14)

In cambio i tedeschi chiedevano: a) il rilascio di tutti gli appartenenti alle forze armate tedesche (venti tra Ufficiali e soldati ) in mano ai partigiani; b) i partigiani si dovevano impegnare a non disturbare il traffico militare tedesco sulle arterie di grande comunicazione; c) porre termine alle azioni repressive contro tutti quelli che, fascisti e non, collaboravano con il Reich.

La risposta del CLN fu negativa. I comandi partigiani ritennero che quell'offerta fosse una debolezza tedesca e che questi non avrebbero più avuto la forza di far cadere il libero territorio che si era venuto a trovare nelle loro mani in modo del tutto imprevisto. Lo stesso partigiano "Armando" scrisse testualmente, in risposta alle domande tedesche: "Noi saremo pronti a trattare con voi quando dimostrerete la volontà di abbandonare il nostro paese. Non prima."

Quali conseguenze portò la decisione del CLN e l'enfatica risposta del comandante partigiano, alle popolazioni del luogo e allo stesso schieramento antifascista, avremo modo di costatarlo in seguito, successivamente a quella che fu definita, "la battaglia di Montefiorino".(15)

Di un altra tesi, alla quale però è difficile poter dare le necessarie conferme storiografiche per l'impossibilità di avvicinarsi agli archivi che detengono ancora molto materiale tedesco e fascista ed anche perché molto di questo è andato perduto, si parla, da parte di coloro che facevano parte dell'esercito repubblicano.

Torna all’inizio

Si tratterebbe di un vero e proprio piano preordinato per creare i presupposti, vista la situazione contingente, da parte dei Comandi militari tedeschi e fascisti, affinché la maggior parte delle bande partigiane, che operavano sulla montagna modenese e reggiana, si raggruppasse in un unica zona per poter poi sferrare l'attacco decisivo per sconfiggerli e catturali. E difatti un concentrato di truppe irregolari, come in realtà accadde, ben poco avrebbe potuto fare contro truppe ben preparate ad affrontare la vera battaglia, anziché la guerriglia.

Anche se questa tesi sembra assurda, pensando a quanto fecero pervenire ai comandi partigiani, i tedeschi, e sulla base delle loro proposte che non vennero accettate, bisogna pur tener presente che queste avvennero alla metà del mese di Luglio, cioè oltre un mese dopo che tutti i presidi fascisti della zona avevano abbandonato le località della Valle del Dragone e che probabilmente vi furono dissensi e contrasti sul modo di condurre l'operazione tra i Comandi tedeschi e fascisti.

Sarebbe questo un argomento da approfondire con maggior chiarezza, poiché i presupposti per dar corpo a questa tesi non sono del tutto ipotetici. Nei paesi attorno a Montefiorino si era concentrato il maggior numero di formazioni partigiane della montagna modenese e reggiana e per questi due motivi fondamentali: in primo luogo i depositi di armi, in particolare tutto l'armamento dei cadetti dell'Accademia Militare di Modena, abbandonato in quelle zone dopo l'8 Settembre e diventato facile preda da parte dei primi gruppuscoli e che aveva creato nei mesi precedenti gravissimi scontri tra pattuglie tedesche e fasciste e bande di ribelli che portarono poi all'eccidio di Monchio, Susano e Costrignano del mese di Marzo 1944, in secondo luogo perché la zona, fuori dalle grandi linee di comunicazione non aveva valore strategico per i Comandi militari tedeschi e difatti era sguarnita di consistenti concentramenti di truppe tedesche, tanto che gli aerei americani, anche nei mesi precedenti, ebbero la possibilità di rifornire i partigiani con abbondanti lanci di armi e di altro materiale. Aggiungasi che le piccole tenenze della GNR erano composte da pochissimi uomini che, in condizioni normali avrebbero potuto essere più che sufficienti, ma che, a fronte di una così massiccia presenza di uomini armati, le fonti partigiane parlano di circa 5.000 uomini, ben poco potevano fare.

E difatti a scorrere le note della cronaca dei primi mesi del 1944, possiamo costatare a quale continuo stillicidio di attacchi e di perdite di vite umane furono sottoposti i piccoli centri come, Frassinoro, Palagano, Toano, Cerredolo, Prignano ecc., oltre alle numerosissime incursioni, da parte dell'esercito ribelle, cui furono sottoposte decine e decine di abitazioni private. A fronte di quella situazione, il Comando Provinciale della GNR, dalla seconda settimana di Giugno cominciò a provvedere affinché i presidi fascisti si allontanassero da quelle zone. Era collegata questa operazione con il programma che scattò poi, forse mal preparato o del tutto improvvisato, alla fine di Luglio?

E' certo che, dal momento in cui i Comandi fascisti e tedeschi decisero di passare all'attacco e malgrado che l'operazione non sia stata completata secondo i piani prestabiliti, in tre giorni, reparti ben addestrati ed armati, anche se non numerosi, riuscirono a debellare ogni resistenza mettendo in fuga quel grosso concentramento di forze partigiane che avrebbero dovuto essere, "un baluardo imprendibile". Dopo brevi combattimenti, queste formazioni si sparpagliarono in mille rivoli per sfuggire all'accerchiamento e moltissimi passarono le linee del fronte per andarsi a rifugiare presso le truppe anglo-americane.(16) 

Torna all’inizio

 NOTE

 

1    cfr. E. Gorrieri: "La Repubblica di Montefiorino", pag. 361.

2    cfr. I. Vaccari: "Il tempo di decidere" pag. 252.

3    cfr. L. Casali: "La resistenza a Modena".

4    cfr. O. Poppi: "Il commissario", pag. 79.

5    ibidem

6    cfr. I. Vaccari, op. cit. pag. 256.

7    ibidem

8    ibidem

9    ibidem

10   cfr. E. Gorrieri op. cit. pag. 285

11   cfr. O. Poppi, op. cit. pag. 95.

12   cfr. E. Gorrieri, op. cit. pag. 385

13   cfr. lettera del Parroco Don Angelo Santi, alla Ass. cad. della RSI in data 5 Luglio 1957. In Arch. Ass. Cad.

14   cfr. G. Pisanò: "Storia della Guerra civile".

15   cfr. E. Gorrieri, op. cit. ed altre opere sulla resistenza.

16   ibidem

 

Torna all’inizio

E mail:             civileguerra@xoom.it